
Sul gusto, i luoghi, l’abitudine.
In un mercato cittadino di una più o meno grande capitale del nord-Europa, diciamo pure un paese scandinavo. Anzi no, più in su, a sinistra, in Islanda.
Giriamo tra i banchi in una variegata presentazione di prodotti, dal vestiario all’oggettistica, un bric-à-brac, sino ai prodotti alimentari.
Ora, per un mediterraneo, peggio, per un italiano non particolarmente curioso o che forse ha esaurito o sta esaurendo la sua voglia di diversità alimentare e gastronomica, il nord Europa può essere una regione difficile.
Il figlio, lì per studio, gli dice - prova questo squalo essiccato, gli sembrava. Un “qualcosa” impacchettato in un cellophane, di colore grigiastro… l’odore non è affatto invitante. Colpevolmente, si rifiuta. Non ha più voglia – dice - di fare quello che non ha voglia di fare solo per il gusto di provare. Viene rimproverato con un sorrisetto di scherno, provinciale, pensa l’uomo in erba.
E’ che è proprio così. Se ci si dovesse fermare al solo aspetto gustativo e qualitativo non c’è una ragione per cui dovrebbe assumere calorie di cui non ha bisogno, proposte in una forma che non riconosce neppure culturalmente. Poi però si fa delle domande, mesi dopo quell’episodio: posto che non proverà mai quella roba lì - non ne ha bisogno – cosa c’è dietro?
E dietro c’è molto, scopre. C’è storia, ma anche cultura di sopravvivenza, in un ambiente ostile dove certe cose si potevano fare ed altre no. Non fa parte quindi di una bizzarra abitudine culinaria di una popolazione con poca fantasia e gusto, con abitudini inspiegabilmente così diverse dalle nostre. L’Hakarl, che significa “squalo fermentato”, ha un caratteristico odore di ammoniaca ed un gusto simile a del formaggio stagionato - cattivo formaggio fermentato, rimugina leggendo - così intenso che molti locali si rifiutano di mangiarlo. Oltretutto, la carne fresca di squalo è tossica, causa l’alto contenuto di acido urico e altro ben poco invitante che non sta qui a ricordare. Robaccia, dai. Le ragioni del suo utilizzo come mezzo di sostentamento sono ovviamente dettate dalle esigenze economiche e dalla natura prevalente in quelle zone. Condizioni durissime. Venne scoperto casualmente, uno squalo venne tirato a terra, lasciato a marcire, quindi venne appeso e fatto asciugare. Pare che nessuno si fece prendere dalla voglia di assaggiarlo causa l’olezzo che emanava, e si racconta che un magistrato della contea e i suoi amici furono un giorno accolti da un contadino che li invitò ad assaggiare la strana cosa. Un poco come quando venne “inventato” il vino Marsala, dove il lungo viaggio in mare dalla Sicilia all’Inghilterra giocò un ruolo determinante, narra la storia. Delle opinioni sul gradimento che ebbe questo strano squalo rinsecchito non si sa, ma pare che il magistrato e i suoi uomini, sofferenti di scorbuto e dissenteria, a distanza di una settimana dopo aver mangiato lo squalo fermentato (anche detto putrefatto, per dare un’idea della sua attrattività ….) si trovarono tutti in ottima salute (Ragnar Egilsson, Meeting The Shark Man, 28 maggio 2015).
La fermentazione del pesce è stata praticata in Islanda da secoli. Ma il suo procedimento non faceva uso di sale causa la scarsezza nell’isola, così come di legname. Lo squalo è nominato nelle saghe islandesi, ma non è chiaro se ciò avvenisse in quanto cibo o semplicemente come oggetto di generica pesca. Già nel 14° secolo la pesca dello squalo era diffusa, e l’Hákarl era divenuto un importante parte della dieta degli islandesi, quindi della loro cultura, per continuarlo ad essere nei secoli a seguire.
Tutto questo non lo avrebbe immaginato in quel giorno in cui si aggirava al mercato della capitale. Lo avrebbe acquisito successivamente, incuriosito.
Col senno del poi avrebbe dovuto prenderne un pezzetto, andarsi a fare una camminata lungo i torrenti d’acqua calda, accompagnandolo, magari, con un sorso di Brennivín, la loro acquavite. E allora, forse, avrebbe avuto una vaga idea di cosa volesse dire vivere in Islanda nel quattordicesimo secolo.